
Il professor Giorgio Maria Ferlini, di cui ho accennato nel mio primo articolo “Gentilezza”, mi colpì da subito perché non si presentò a noi studenti autocelebrando i suoi successi come psicoterapeuta e nemmeno scegliendo parole altisonanti prese da chissà quali manuali.
Quello che ci narrava era tratto da esperienze di vita personali e professionali, senza appoggiarsi nel racconto al linguaggio medico, anzi invitandoci a rinunciare all’uso di parole che parlino poco dell’esperienza della persona con cui ci troviamo a interloquire: un modo di descrivere che mi suggeriva situazioni reali all’interno della pratica psicoterapica.
Durante il primo incontro ci fece leggere una poesia di Gaetano Benedetti1 , presente nel libro “Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica” del 1991.
Non perdere tempo (1940)
Era una ragazza demente.
Studente di medicina, dovevo esaminarla
E poi riferire.
Ma non riuscivo a farlo. Quegli occhi azzurri
Che non davan mai una risposta
Sembravano persi in un abisso di dolore
Che solo gli altri chiamavano ebete
E che era divenuto un po’ il mio.
Anziché descriverne la stolidità
Il mutacismo, la catatonia
Divenivo anch’io silenzioso
Fra ombre di notti secolari
Che avrei voluto chiamare per nome
Accarezzare abbracciare
Se il mio sassolino lanciato
Nelle acque di un pantano immenso
Mi avesse dato un’eco anche solo lontana.
“Non vedi – mi diceva l’aiuto psichiatra
cercando di aiutarmi-
non vedi che non connette?
Non perdere tempo”.
Prendendo spunto da questo scritto così intenso, cominciò a raccontare la sua storia e ci parlò dei momenti nel suo percorso professionale e umano in cui sentiva di aver fallito.
Da un simile atto di umiltà, trovo utile partire a presentarvi un episodio in cui anch’io percepisco di aver fallito. Nessuno di noi dovrebbe mai accantonare quello che sin da subito il professore ha provato a ribadirci attraverso quella poesia: ci incoraggiava, infatti, ad andare oltre a povere nosografie mediche, ci invitava a incontrare il paziente, e a creare un posto dove poter accogliere l’altro e infine meravigliarsi. Persino quando le storie sono cariche di dolore o la sofferenza così acuta è la nostra.
Ho conosciuto la persona di cui scriverò quando ero molto piccola: adorava le lingue straniere, soprattutto l’inglese, che le era utile per parlare con gli americani durante i fine settimana di lavoro in discoteca, ma anche per viaggiare in solitaria, in paesi lontani.
Ancora oggi la immagino buffa, eccentrica, desiderosa di conversare con chiunque; la vedo anche diffidente, un tratto tipico, mi dico, di chi come noi viene dalla campagna, eppure coraggiosa di sfidare un piccolo paesino vuoto e lento per prendersi tutto quello che c’è al di là. Lei era sempre appartenuta a luoghi lontani, era brillante e testarda e sono certa l’avrebbero accolta, in posti forse ai miei occhi caotici come le metropoli americane.
E poi ancora caparbia, sorridente, presente, come in avvenimenti che mi sono stati raccontati.
In camera sua ho visto diplomi ottenuti con buoni voti, enciclopedie, quadri fatti all’uncinetto e vinili, ma sfortunatamente è tutto sotto una spessa coltre di polvere: mi mette una forte malinconia assistere agli anni che si posano sopra gli oggetti che un tempo avevano un significato nella sua esistenza.
Tuttavia, sono altri i ricordi diretti che ho di lei, e risalgono agli anni successivi al suo primo ricovero in psichiatria.
Risate, tante risate apparentemente casuali in diversi momenti della giornata, domande e commenti molto diretti che non mi sapevo spiegare; discorsi spezzati, emozioni confuse, tentativi di suicidio e il contorno di giudizi da parte degli osservanti su quanto ognuna di queste esternazioni fosse fuori luogo e sbagliata.
Una profonda spaccatura, sento questo: a poco a poco ognuno attorno a lei aveva perso lo sguardo verso quella figlia, sorella, amica, amante. Ognuno l’aveva un po’ alla volta dimenticata, mentre medici e psichiatri proponevano contenzioni fisiche e farmacologiche di ogni genere.
La famiglia rifiutava completamente la situazione, arrivando a rivolgersi ai medici per sottoporla a molteplici ricoveri. In questo modo la sua identità di persona veniva via via sostituita da quella di malata psichiatrica, in cui lei stessa ha imparato a riconoscersi.
Una parola ha ridato un senso alle domande, pur sollevandone molte altre col passare degli anni: schizoaffettività.
Per indagare questo termine, entrato dirompente nella mia vita, dal periodo delle scuole superiori ho iniziato ad interessarmi di psicosi e di schizofrenia.
Come sovrapporre l’immagine di quella ragazza coraggiosa, determinata e testarda con la donna di oggi affaticata dagli effetti collaterali di un pesante uso di neurolettici? Cosa restava di lei dopo la diagnosi? Aveva senso sperare che potesse tornare come prima? Sono interrogativi che non si spengono mai…
La diagnosi di schizofrenia ha portato le persone intorno a lei a valutare ogni sua azione e comportamento in funzione della malattia.
Perché troviamo sia importante identificare un essere umano con una diagnosi di malattia mentale, deresponsabilizzarla e deresponsabilizzarci completamente nei gesti che si compiono nell’incontro tra i parlanti, per esempio in una seduta clinica? Per non parlare poi dell’inutilità di miriadi di diagnosi psichiatriche, delle riedizioni costanti del mito della malattia mentale con il DSM. Di chi curiamo il disagio? Ci siamo mai chiesti in quale strana parte del cervello alberghi la schizofrenia? Tramutiamo regole sociali in leggi naturali, consideriamo caratteristiche di personalità quelle che sono proprietà situazionali e trasformiamo giudizi di valore in dati di fatto (Pagliaro G. e Salvini A.; 2007).
Rispondiamo in fondo a dei principi culturali, normativi e morali quando diciamo che è sbagliato un certo tipo di comportamento e lo etichettiamo con quella che crediamo essere una vera e propria patologia mentale, anche se di questo non si tratta come suggerito da un libro molto esaustivo al riguardo: “Schizofrenia. Un delirio scientifico?” di Mary Boyle, pubblicato nel 1994.
Gli uditori di voci possono costruire un significato altro per queste esperienze non etichettandolo come malattia o come qualcosa da provare ad eliminare con massicce dosi di psicofarmaci? Possono tali persone diventare loro in primis mediatori di cambiamento per ciò che riguarda il pregiudizio nosografico aleggiante sulle loro identità negate?
La dottoressa Maria Quarato, di cui ho seguito diverse conferenze, ha studiato in modo approfondito il tema ed è diventata divulgatrice di un’ulteriore prospettiva di pratica clinica e psicoterapica con il libro “Allucinazioni: sintomi o capacità? Racconti di errori diagnostici, soluzioni, ribellione e libertà” del 2019. I punti cardine del suo approccio hanno come obiettivo la trasformazione dei significati negativi inizialmente dati alle voci, ossia di manifestazione sintomatologica di una patologia, al fine di giungere al controllo e alla gestione delle stesse per attivarle a proprio vantaggio. In ultima fase il soggetto può divenire mediatore di cambiamento per altri che si trovano in una situazione simile.
Abbiamo un grande potere nelle mani come essere umani e ancor più come professionisti del sociale: quello di essere intermediari nel processo di mutamento, con l’aiuto proprio delle persone con le quali lavoriamo. È nostra responsabilità aprire al dialogo e riscoprire i significati che l’altro introduce con il proprio comportamento.
Non appena viene pronunciata la parola della diagnosi, il contesto attorno al paziente, assieme alle agenzie sociali, lavorano rafforzando l’identità del malato e lo “controllano” attraverso l’inserimento in determinati ambienti dediti alla cura di queste patologie.
Non credo sia necessario dare diagnosi, molti pazienti arrivano in studio già con una personale valutazione che riguarda il loro stato di salute, cercando conferme e cause per rintracciare la cura più efficace: nostro compito è riscoprire i significati dati al termine diagnostico. Non possiamo confermare la diagnosi che ci presentano, quello che è importante è scoprire come l’insieme di significati emersi in seduta orbiti attorno alle vite di queste persone. Conoscere i mondi di cui questi soggetti fanno parte, come ne sono venuti a contatto e come li animano.
Riprendendo il mio discorso iniziale, sento di aver fallito con la persona di cui vi ho parlato precedentemente, in quanto io stessa negli anni, l’ho riconosciuta solo come malata psichiatrica e non più come individuo in grado di autodeterminarsi e capace di gestire consapevolmente le varie sfere della sua vita.
Bibliografia
Benedetti Gaetano, Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica (1991), Bollati Borighieri, Torino
Boyle Mary, Schizofrenia: un delirio scientifico? (1994), Casa editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma
Pagliaro Gioacchino, Salvini Alessandro, Mente e Psicoterapia. Modello interattivo-cognitivo e modello olistico (2007), UTET Università, Torino
Quarato Maria, Allucinazioni: sintomi o capacità? Racconti di errori diagnostici, soluzione, ribellione e libertà (2019), Editore Fabbrica dei segni, collana T’insegno, Milano
1 Gaetano Benedetti (Catania, 7 luglio 1920-Basilea, 2 dicembre 2013) è stato uno psichiatra, psicoterapeuta, psicoanalista e accademico italiano. Si è dedicato allo studio e alla psicoterapia delle psicosi. È stato per lui fondamentale l’incontro con le correnti fenomenologiche e della filosofia esistenzialista, che lo ha condotto a considerare l’esperienza psicotica principalmente come una profonda lacerazione del senso di sé nell’incontro con l’altro. La psicoterapia era considerata come una sfida esistenziale con l’obiettivo di dare ascolto e senso ai drammi dell’esperienza psicotica.