“Anch’io beninteso non credo che potremo mai intenderci vicendevolmente senza residui di incomprensione. Ma anche se tu fossi occidentale e io cinese […] potremmo comunicarci moltissime cose e, oltre a quelle interamente comunicabili, indovinare e intuire moltissimo l’uno dell’altro. Comunque sia, sarà bene tentare”
H.Hesse, Il giuoco delle perle di vetro


Il confronto fra ambienti culturali distinti risulta un terreno di dialogo tanto attuale, quanto controverso. “Dialogo”, dal greco διά+λóγος (letteralmente attraverso il discorso), è la parola che accade nella differenza, un confronto che si nutre delle diversità che intercorrono fra le parti. Nel dialogo infatti, ad essere sostanziata non è tanto la relazione, quanto ciò che scorre attraverso di essa: per usare le parole di Françoise Jullien, il confronto con l’alterità è la deviazione da uno scarto (écart), che permette di esibire quel “tra” così ricco di implicazioni reciprocamente feconde. Dunque per consentire questa deviazione, risulta necessario un decentramento che permetta al nostro sguardo di allargare il suo focus, comprendendo, oltre alla cultura in cui siamo immersi, anche gli orizzonti di un modo diverso di considerare e affrontare la vita, con tutti i suoi risvolti.
Ma da dove parte questa necessità di confronto?
Se proviamo a rifletterci su, spesso lo stimolo che spinge ad esplorare nuove strade, un’idea metaforica di viaggio fisico e mentale assieme, nasce da uno spaesamento: nell’attimo in cui cominciamo ad avvertire che il terreno culturale di riferimento non è in grado di far fruttare risposte soddisfacenti alle domande che ci poniamo, l’originalità e la specificità di opzioni teoriche diverse ci spingono a sospendere certi atavismi che crediamo scontati (e che tante volte ci bloccano) per confrontarci con l’alterità. Così, l’idea di “altro” non si connoterebbe semplicemente della sua opposizione alla nostra identità: non sarebbe il nostro alter ego, ciò che è altro da noi, ma l’elemento che proprio grazie al suo non essere me contribuisce a definirmi, grazie al confronto con il quale riesco a vedere nuovi aspetti e a cambiare me stesso. E questo non solo nel raffronto con altre culture, ma anche nel nostro quotidiano interfacciarci con la realtà che ci circonda.
Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty offre una immagine quanto mai esplicativa in questo senso: per lui “L’uomo non è che un nodo di relazioni”: è nel confronto con “l’altro”, nell’intramarsi dell’”io” con la realtà che risiede la natura umana. Non è più quindi una ennesima opposizione, ma una co-istituzione tra soggetto e oggetto, interno ed esterno, mente e corpo. Se consideriamo infatti il nostro rapportarci con il mondo non possiamo prescindere dal corpo con cui lo facciamo: è proprio grazie ad esso, al suo essere soglia, che possiamo avere percezione del reale e del nostro essere immersi nell’orizzonte dei suoi stimoli. E come noi abbiamo percezione del mondo, così il mondo si percepisce in noi, e noi percepiamo noi stessi nel mondo. Veniamo ad essere così, l’onda che si diparte dal mare, siamo fatti della stessa sostanza e non possiamo pensarci al di fuori di essa.
Con queste considerazioni, Merleau-Ponty si è molto avvicinato, pur non volendolo espressamente, alla cultura tradizionale cinese, in particolare alla concezione taoista del mondo, che si è posta nel tempo domande diverse da quelle portate in auge dalla cultura occidentale.
Ciò risulta quanto mai evidente se mettiamo a confronto i due dipinti con cui ho voluto introdurre questo articolo: Il viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich e Le montagne Jinting in autunno di Shitao. Il primo, realizzato nel 1818, si inserisce nell’alveo della corrente romantica europea; il secondo, datato intorno al 1671, rientra nell’operato artistico di uno dei pittori più famosi durante la reggenza della dinastia Quing in Cina.
Solo soffermandoci ad un primo sguardo, riusciamo a cogliere una differenza importante che può creare dialogo: il protagonista, accentratore della visione nel Viandante è proprio l’uomo, che si specchia sull’ignoto; la scena dipinta da Shitao, invece, appartiene tutta al mondo, di cui l’essere umano è soltanto una parte.
Il viandante dunque, nonostante sia pervaso dal sentimento del sublime suscitato dalla maestosità dell’elemento naturale che si staglia sotto di lui, rimane in una posizione di rilievo, in cui risulta sempre e comunque misura di tutte le cose. E chi osserva si immedesima nella sua visione, sentendosi parte centrale di un paesaggio sì sconfinato e ignoto, ma che risponde ad uno stato d’animo atto a definirlo. L’essere umano di Shitao al contrario, è a mala pena visibile nel suo percorso all’interno del paesaggio: è una tappa del soffio vitale (Qi/氣) che riempie il cosmo, è una sua manifestazione, si mette in comunione con la natura che a sua volta vive in lui, non la domina e non ne detta le misure. Questo perché nella cultura cinese non emerge alcun dualismo, alcuna separazione fra “io” e mondo, il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito, il corpo e l’anima: questi ultimi sono solo stati diversi dello stesso Qi, livelli in continua transizione, tanto che uno stesso carattere racchiude il cuore-mente, o Xin/心. L’armonia risiede in una polarità dialettica, come nel Taijitu, dove lo Yin (ciò che accoglie, sta sotto, genera) si abbraccia allo Yang (ciò che è luminoso, secco, che feconda e sta in alto), il nero e il bianco si completano e sono presenti l’uno nell’altro, le esatte metà di un cerchio infinito.

Non è un intento mimetico che spinge il pittore cinese a muovere il pennello, tanto che la tecnica di riproduzione en plain air non viene mai utilizzata nella pittura di tradizione cinese: il dipinto cinese è una rappresentazione del flusso energetico che abita tutte le cose insieme, è la pregnanza circolatoria a parlare del mondo. La consapevolezza del mutamento, dell’eterno scorrere del Qi attraverso tutti gli esseri – viventi e non – è pienamente realizzata nel concetto di respirazione, come il modo di esserci che più collega l’animale umano alla sostanza della sua natura, permettendogli di partecipare al flusso in costante movimento che è la vita o il Dào/道 la via, il sentiero di tutte le cose. È per questo motivo che qualsiasi forma di blocco o stasi rappresentano un problema, l’origine della malattia. E difatti anche il dipinto ha necessità di respirare: lo sfondo bianco non è un vuoto, ma lo spazio di circolazione del Qi, il non esserci che permette all’esserci di esistere. Dalla carta emergono i tratti di inchiostro, il cui spessore e intensità esprimono le diverse concentrazioni di energia che abitano le cose, alternandosi, vibrando e continuando a circolare. Il pittore è animato dello stesso respiro che pervade il suo dipinto, l’ispirazione prende forma espirazione dopo inspirazione.
L’arte, così, diviene una soglia di accesso, un modo di re-imparare ogni volta a rapportarsi con la realtà e con la propria dimensione primigenia. Non più dare forma al mondo, come nella tradizione occidentale, ma mettersi in comunione con esso, condividendo il suo stesso respiro.
Quanto siamo lontani da questo modo di vedere le cose? Quanto, facendo i conti con le nostre esistenze, metteremmo volentieri da parte l’horror vacui per crearci delle zone bianche in cui respirare?
Dal semplice raffronto tra i due dipinti citati, emergono riflessioni e stimoli di ricerca che forse, rimanendo nell’ambito dei nostri riferimenti quotidiani, non avrebbero avuto la stessa possibilità di farsi strada. Dunque non possiamo fare a meno di considerare che il dialogo fra ambienti culturali distinti, nel suo puro significato di parola che accade nella differenza, potrebbe darci delle risposte interessanti con cui provare a nutrire la vita (Yang sheng).
Bibliografia
Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2018
Shitao, Discorsi sulla pittura del monaco zucca amara, Jouvence, Milano 2014
François Jullien, Nutrire la vita, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006