Dopo esperienze professionali vicine al mondo della disabilità, ho infatti lavorato come operatrice socio-sanitaria per quattro anni all’interno di un centro diurno di Padova per persone con disabilità intellettiva, si è sempre più articolato dentro di me un discorso su questo tema. Per poter dare ancor più spessore a questo vissuto, ho deciso di scrivere la tesi conclusiva del mio percorso di laurea in Psicologia Clinico Dinamica proprio sulla disabilità, nello specifico riguardo ai movimenti di self-advocacy (autorappresentanza) delle persone con disabilità intellettiva.
Mi ha colpito molto la prospettiva dei “Disability studies”: studiosi di ambito pedagogico, filosofico e giuridico chiedono a gran voce uno spostamento di paradigma per quello che concerne il linguaggio utilizzato nel parlare di disabilità.
Questi professionisti sottolineano come l’argomento disabilità sia sempre trattato da un punto di vista medico: la persona con disabilità ha quindi una malattia che comporta dei deficit individuali, vive una “tragedia personale” data dal malfunzionamento fisico-psicologico che l’ha sfortunatamente colpita.
Quello che le viene benevolmente concesso è un aiuto di tipo assistenziale-riabilitativo, poiché il soggetto è passivo di fronte a questa condizione. Tutto ciò alimenta profondamente diversi stereotipi collegati a questi individui, visti come bambini, che muovono in chi li assiste sentimenti di compassione e pietà: essi o sono indifesi e vittime dei propri mali, oppure all’opposto vengono descritti come supereroi, elogiati per l’estrema abilità nel disattendere le aspettative di noi abili, evidenziandone il sorprendente coraggio e determinazione.
Pensiamo per esempio a chi gareggia in competizioni sportive, o all’applauso che quasi sicuramente parte quando un bambino con disabilità in palestra fa canestro: riflettiamo su questo mondo parallelo in cui sono da sottolineare e vengono spettacolarizzati gli sforzi estremi per vivere pur non essendo come tutti gli altri ma “supercrip” (significa letteralmente superstorpio). Ciò deriva dalla convinzione appunto che la vita con un deficit debba necessariamente essere orribile e insoddisfacente ed è eccezionale vedere qualcuno che si discosta completamente da questa retorica discorsiva (D’Alessio, Marra, Medeghini, Vadalà, Valtellina;2013).
Infine, vi è il macchinoso e ostinato tentativo di descrivere la persona con disabilità come una persona normale, ma che paradossalmente non lo è a sufficienza per dirsi tale…
Il modello che si vuole proporre a fianco a quello medico-riabilitativo del deficit è il modello sociale della disabilità. In primo luogo desidera dare voce a queste persone, smettendola così di delegare a professionisti i racconti di vita di uomini e donne che possono narrare loro stessi ciò che le riguarda, divenendo veri esperti consultabili sul discorso disabilità. Rende bene l’idea un loro celebre motto: “Nothing about us without us” (nulla su di noi senza di noi).
Il modello sociale punta il proprio focus sulle barriere politiche, culturali, sociali e comportamentali che una persona con disabilità deve abitualmente affrontare: queste barriere conducono a forme di oppressione e discriminazione che limitano il loro spazio vitale.
Si è costruita negli anni una politica di tipo umanitario, ed assistenziale, portando ad un impoverimento identitario della persona con disabilità, relegata al ruolo di individuo bisognoso di cure e protezione.
Ovviamente non si vuole negare l’importanza del modello medico, ma si desidera mettere in discussione la sua egemonia: la menomazione che vive la persona non può e non deve condizionare il confronto sotto un profilo culturale e sociale a cui ognuno di noi è chiamato a partecipare come cittadino attivo, inserito in una comunità che voglia dirsi civile.
Dalla metà del secolo scorso, accanto alle lotte per i diritti civili delle donne e degli afroamericani, nascono movimenti di rivendicazione politica e sociale che vedono famiglie di membri con disabilità accanto ai propri figli e parenti per reclamare un ruolo attivo all’interno della società.
Ora sono le persone con disabilità stesse a prendere coscienza di questa battaglia, come protagonisti portavoce delle proprie istanze che con tutte le loro forze vogliono scardinare un sistema sociale disabilitante “affermando il diritto di ogni persona a determinare mediante la propria scelta le proprie condizioni di vita ed assecondare un percorso di vita che corrisponda alle proprie aspettative” (D’Alessio, Marra, Medeghini, Vadalà, Valtellina;2013).
La vita non è dunque più nelle mani di specialisti che prendono decisioni per la persona con disabilità: sono invece le persone che animano questi movimenti a voler essere considerate People First, mosse da una forte spinta emancipativa, accomunati dall’adesione ad alcuni fondamentali principi: diritti di uguaglianza, libertà di espressione delle proprie scelte, di controllo sulla propria esistenza e di partecipazione alle diverse aree della società, economiche, politiche e culturali.
Riprendendo le riflessioni di Gardou (2006) da questo momento si impone una metodologia della prossimità, la quale prende visione diretta dell’esistente, senza desideri voyeuristici o atteggiamenti di supponenza e utilizza la compartecipazione, offrendo uno spazio di ascolto attivo all’inatteso, alla sorpresa, alla messa in discussione della norma.
C’è ancora parte della nostra comunità che crea scompiglio e scandalo quando ogni giorno grida a gran voce che non è disposta ad accettare remissivamente un’ingiusta ripartizione dei diritti, quando vive quotidianamente sulla propria pelle racconti intrisi di pregiudizio ed allora è chiamata ad una presa di responsabilità collettiva per promuovere e agire cambiamento.
Questi movimenti hanno quasi sempre preso avvio da persone con disabilità fisiche, mentre per quello che riguarda la disabilità intellettiva purtroppo capita spesso che i nostri buoni propositi da mediatori del sociale restino sulla carta e noi “abili” finiamo imbrigliati da vecchi pregiudizi.
Le persone con disabilità intellettiva vengono spesso considerate impossibilitate ad esercitare autodeterminazione rispetto agli ambiti della loro esistenza delegando a numerosi specialisti e a particolari strutture la completa gestione delle loro vite, ma io credo profondamente in possibili percorsi di fiducia, cambiamento e autorappresentanza per ogni essere umano. Sicuramente questo è un tema a me caro, molto complesso e sul quale tornerò per ulteriori approfondimenti.
… delle buone intenzioni spesso non si fa poi molto: quello che fa in ogni caso la differenza sono le storie che si dipanano anche ora nel momento in cui sto scrivendo, le quali chiedono di essere ascoltate ed esortano la partecipazione di alleati per le piccole rivoluzioni che quotidianamente affrontano.
Non dovremmo mai essere indifferenti pensando che sia qualcosa che non ci appartiene.
“…Quando arriveranno a distruggere me non passerà molto tempo e arriveranno a distruggere te…” (Lorde A.;1983).